Arrivammo al calare della notte sulla sponda a nord del lago, proprio sopra la diga, sul versante opposto alla collina che la scorsa estate ci ospitò nel suo ventre.
I nostri piani erano falliti, poiché contavamo di arrivare in pieno giorno e sfruttare così la luce del sole per trovare il punto migliore in cui allestire il campo per la notte. Fummo invece costretti a muoverci lungo le rive per esplorare il territorio e trovare l’angolo adatto e riparato. Era buio ed il freddo ci travolse appena uscimmo dalle auto. La prima esigenza, la legna per scaldarci, la trovammo con fortuna appena a ridosso della riva che scegliemmo per piazzare le nostre tende. Era fradicia per i giorni di pioggia passati ed occorreva quindi provvedere a trovarne dell’altra, più secca e asciugare quella che avevamo già trovato. volle un po’, e mentre ci muovevamo nel bosco illuminato dalle frontali, ripensai a quante volte ci scalda un fuoco.. Mentre cerchi la legna, mentre lo accendi e quando finalmente ti ci siedi accanto. La scoperta più rivoluzionaria di tutti i tempi dannazione!
Appena le fiamme iniziarono a bruciare con costanza, in quello spazio, in quel momento, ci ritrovammo con il naso all’insù a contare l’infinità di stelle che ci sormontava, provando a identificare le costellazioni di una magnifica notte d’inverno. Dallo zaino tirammo fuori la cena e finimmo di scaldarci intorno al fuoco, affettando il meglio che potevamo avere nelle borse accompagnando tutto con del rosso profumato, finché il sonno non prese il sopravvento e ci accompagnò, uno per volta, al riparo delle tende. Il caso volle che fummo sorpresi dalla pioggia proprio in quel momento, quando iniziò a cadere leggera, avvolgendo tutto in una nebbia sottile e malinconica. Ci accompagnò fino al mattino seguente, mai violenta e generosa nel lasciarci proprio al risveglio, raggelando l’aria.
All’alba, con il sole ancora pallido e le gocce d’acqua che ancora cadevano leggere, i pini bagnati, e un fitto strato di nebbia sul lago, si iniziarono a sentire i primi rumori provenire dalle tende. Qualcuno ormai sveglio si rotolava nel sacco a pelo, una zip si alzava lenta aprendo l’ingresso di un’altra tenda, i passi di qualcuno dei ragazzi già in piedi si aggirava invece alle spalle della mia. Decisi allora di alzarmi poichè era arrivato il momento per tutti di rimetterci in cammino.
Con molta lentezza fummo tutti fuori e iniziammo a ripulire il campo dalle nostre tracce, prima di fare un’abbondante colazione. Più che abbondante. Al punto tale da sentirci subito pesanti già ai primi passi. D’altronde chi ben comincia..
Preso il sentiero che introduceva nella parte più profonda del bosco, rimanemmo immediatamente colpiti dall’aspetto crudo della vegetazione, ancora intatta e selvaggia, con il volto crudo del wilderness.
Povero di neve, il sentiero era invece coperto di fogliame caduto durante la stagione autunnale, un insieme di colori caldi che erano ovunque intorno a noi, dal marrone al rosso, dall’arancio all’ocra. Armonia spezzata, o resa ancora più viva, dall’azzurro di quel cielo che si lasciava appena sbirciare tra la fitta maglia di rami di quella faggeta.
Dopo circa un’ora, il torrente che seguivamo alla sua destra, si diramò in diverse direzioni, alle volte aumentando la portata, altre impaludandosi rendevano più complicato il passaggio, al punto da ritrovarci con entrambe le gambe immerse nel fango, sino alle ginocchia, costringendoci a sforzi superiori alle aspettative ma che tuttavia caricarono i nostri animi. Fummo in questa situazione per oltre una mezz’ora, passando attraverso vie percorse dai cinghiali, nella notte, che complicano ulteriormente il passaggio, rizollando e grufolando tutto il terreno in un ambiente già impervio.
Fu allora che decidemmo di voler esser parte integrante di quel territorio ostile, entrando in sintonia con la natura e le sue forme di vita, muovendoci e sentendoci come esse. Era infatti arrivato il momento del pranzo, e mai come in quella occasione, fummo così simili agli stessi cinghiali da divorare un’intera parmigiana di splendide melanzane, accompagnate dall’immancabile frittata di maccheroni e un bricco di vino rosso.
Pesanti dal pranzo ritornammo a guadare la palude che separava il vallone dal sentiero, e ci riuscimmo aiutandoci l’uno con l’altro, attraversando una zona più breve ma altrettanto impervia. Ritrovata così la pista, seguimmo il torrente sulla via del ritorno sino al bivio con una mulattiera sottile che, spostandosi a nord rispetto alla nostra rotta, ci condusse all’allaccio con l’antico sentiero che sale verso l’Eremo di San Michele, sulla montagna spaccata. Una mezzora di tornati verticali, tra sassi e radici che conduce, attraverso un ultimo tratto vertiginoso, all’antica chiesa in pietra, costruita all’interno di una grotta. Arrivati in cima, e attesi tutti gli altri, dovemmo però affrettarci a rientrare poiché il tramonto incombeva e il vento iniziò a soffiare più forte.
Ripercorremmo tutta la via del rientro in un silenzio composto di minuscole parti fatte di meraviglia, stanchezza, emozione, dolori, felicità.