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La giornata iniziò con i raggi del sole che filtravano dalla finestra, illuminando la stanza all’ultimo piano dell’albergo dove le ragazze, Peppe ed io avevamo passato la notte. Alle 6.30 la sveglia suonò, ma eravamo già tutti svegli, in silenzio, presi da un’irrefrenabile voglia di iniziare la nostra avventura in quelle terre selvagge. Il sonno riparatore ebbe il suo effetto benefico e sentivamo che era arrivato il momento di fare sul serio. Ci sentivamo carichi, e appena trovammo il coraggio di mettere i piedi a terra, uscendo dal tepore di quei piumoni, non facevamo che ripeterci d’esser pronti, galvanizzandoci a vicenda trovando così la forza di fare quel primo passo.

Ognuno di noi, durante la fase di preparazione, aveva gestito le sue emozioni proprio per quel giorno che ci trovavamo a vivere. Avevamo calcolato tutto, nei mesi precedenti, per far sì che fossimo in quel posto, in quel momento, tutti insieme, ma allo stesso tempo soli con i nostri dubbi. Come se avessimo in un attimo cancellato dalla mente ogni pensiero e progetto, ritrovandoci ad esser scatole vuote pronte a riempirsi di una nuova avventura.

Fu la colazione a ridar ossigeno ai nostri pensieri e a caricarci per la partenza. Erano appena le 7.30 e avevamo già fatto una grande abbuffata, tra caffè, the, croissant e fette biscottate piene di marmellata, qualche pezzo di torta ed un succo di frutta. Gonfi come palloni ci avviamo a prendere i nostri zaini e a saldare il conto per la notte e i pasti. Facemmo un ultimo controllo all’attrezzatura, costatando amaramente che nonostante ci fossimo privati già di tanto materiale, i nostri zaini continuavano ad esser zavorre che pesavano, di media, intorno ai venti chili. Quanto pagammo quel peso durante i giorni a venire…

Usciti dall’albergo, nonostante fosse appena l’11 agosto, incontrammo l’aria gelida tipica di quelle montagne, tra le quali la coltre di nubi ancora non si era dissipata, offrendo alla vista un panorama da cartolina, con alte montagne, ampie vallate e una gamma di colori pastello, predominanti in quelle ore della giornata. Nel cortile dell’albergo, c’erano ad attenderci Sara e Michele, saliti su da Levico insieme a Giada che li aveva accolti nella sua baita per la nottata precedente. Ci salutammo, promettendole di rivederci al nostro ritorno, e ci mettemmo finalmente in marcia.
Alle 8.30 demmo iniziò alla nostra avventura lungo la catena montuosa dei Lagorai.

Imboccammo il sentiero 325 alle spalle dell’albergo e risalimmo una prima lunga serie di tornanti prendendo quota. Entrammo nel bosco fitto che saliva già intorno ai 1800 metri slm, e dopo averlo attraversato arrivammo all’impianto della Panarotta (2002 slm). Quello era il nostro punto di partenza. Il luogo che più volte indicammo sulle carte come “via” del nostro trekking. La salita per raggiunger l’impianto della Panarotta ci lanciò il primo segnale, quasi come se la montagna volesse dirci “ragazzi cari, il posto è magnifico ma per preservarlo e trovarlo intatto bisogna faticare, e tanto”.

Avevamo già il respiro corto e l’affanno ci impediva di respirare con regolarità, ma appena giunti in cima ci sedemmo a terra e restammo fissi a guardare le Dolomiti che si estendevano verso nord est, imponenti come nessuno di noi le aveva mai viste. Trovata la via, ci avviammo lungo un sentiero ben tracciato che proseguiva a mezzacosta lungo la montagna. Il sole si andava alzando rapidamente e i raggi che scendevano alla nostra destra illuminavano l’intero pendio, mostrando, contro luce, di tanto in tanto, il passaggio di altri escursionisti che proseguivano più alti di noi lungo lo stesso percorso che ci avrebbe condotto verso il monte Fravort.

Superato il primo tratto a mezzacosta, iniziammo a prender quota finchè, superata una collina, ci apparve in tutti i suoi 2347 metri d’altezza, il Fravort, ricoperto da pratoni verdi aperti. Il vento soffiava veloce quella mattina e ci dava schiaffi gelidi sulla faccia tenendoci vigili a dove mettessimo i piedi. Senza seguire la cartina proseguimmo lungo il percorso che ci accompagnava verso la salita della montagna fino alla sua vetta. Tanti escursionisti della giornata erano sul nostro stesso cammino.

Provenivano dal Trentino, ma anche dalle vicine Austria e Germania. Un corpo eterogeneo di persone, intergenerazionale ed interraziale, accomunato da un amore sviscerale per la natura, quella vera, nascosta alla quotidianità. Difficile da raggiungere e che spinge l’uomo a misurarsi da solo con la fatica, in una sfida mentale tra il proseguire o l’arrendersi per il solo gusto di poter sentire quel vento sbattere in faccia mentre con l’occhio e il cuore si ammira lo spettacolo offerto da quell’ambiente. Anche se questo significa svegliarsi alle 4 del mattino, con -2° all’esterno.

Risalendo il lungo sentiero del monte Fravort, superammo non senza fatiche già quota 2200 metri slm, e nonostante in seguito ci accorgemmo di aver toppato, scavalcando una montagna tale, con la zavorra di 25 chilogrammi sulle spalle, al primo giorno, fu ugualmente un bene poiché prendemmo già l’altitudine che avremmo dovuto affrontare nei giorni seguenti, evitando un ulteriore saliscendi di circa 350 metri di dislivello. Man mano che salivamo si accorciavano i tempi tra una pausa e un’altra e la differenza tra i nostri passi marcava le distanze tra noi, con Michele già in vetta e Peppe, poco più giù, seguiva Sara, io, Smé e Maria.

“Amare la natura, la montagna, è un po’ come amare una persona del resto. Chi ha provato amore, potrà capire anche se non avesse mai messo piede in un bosco. Quando ami infatti, ami i difetti senza trucco che paiono com’esser parte di un insieme perfetto capace di travolgerti. Ami i capricci e i problemi, parti vive come i sentieri instabili sui pendii. Ami la fragilità e gli errori. Incomprensioni e convinzioni, che ami perché riesci a capirli e fai di tutto per combatterli, come quando percorri una via sbagliata, o indossi uno scarpone troppo stretto, o giudichi male una difficoltà rispetto alla realtà. Ami malinconia e severità che raccontano tutta la dolcezza e la sincerità. Ami le paure, che sono poi anche le tue, e allora le combatti, come combatti con caparbietà la pioggia su sentieri sconosciuti perché sai che puoi solo affrontarli. Ami perché sai che è oltre il piacere facile del momento, come quando programmi un trekking di più giorni, senza vette, di decine e decine di chilometri, per il solo piacere di assaporare lo spirito e l’essenzialità della montagna. Ami chi proteggi, avendo cura della sua anima, come per la natura, della quale custodisci i ricordi più belli nella tua mente e li accarezzi alla prima occasione.”

Hikers adventures

Arrivammo tutti in vetta verso ora di pranzo. Ci meravigliammo per la determinazione che impegnammo in quella prima botta dolomitica e venimmo ripagati da un paesaggio spettacolare che volava al di là delle nuvole, tracciato dal grande arco della catena dei Lagorai, culminante con le Pale di San Martino che dominavano il paesaggio davanti a noi. Lontane. Man mano che le forze ritornavano, andammo a scoprire l’enorme trincea sulla quale ci trovavamo, in vetta al Fravort.
Erano solo i resti di un conflitto che continua a portare le ferite e le perdite di vite umane, strappate in nome della guerra. Quelle trincee che accolsero ragazzi anche più giovani di noi, posti a vedetta di un fronte insanguinato, erano ormai ecatombe dimenticate in cui la vita scorreva come poteva esser la normalità di quei giorni in cui chi le abitava aveva le stesse passioni ed emozioni di un suo coetaneo dei nostri giorni. Faceva male chiudere gli occhi e avvertire sorde le urla di dolore che provenivano tra quei muretti a secco. Luoghi aspri che emettevano severità, come quelle giornate fredde al fronte.

Mentre consumavamo il pranzo studiammo il percorso che avremmo dovuto seguire e scegliere, tra quelle valli, il punto dove piazzare la nostra tenda. Scegliemmo di seguire il sentiero 325 che passando per il monte Gronlait e per Pizzo Alto, ci avrebbe portato al Lago di Erdemolo dove avremmo potuto passare la notte al rifugio dell’omonimo lago. Ritrovate le energie ci rimettemmo in marcia, ben consci delle difficoltà che quegli enormi macigni che portavamo come muli sulla schiena ci stavano mettendo in allarme. Attraversammo a mezzacosta il monte Gronlait (2383 slm) in un ambiente severo che via via si lasciava alle spalle gli ultimi nuclei abitativi a valle prima di disperdersi interamente tra infinite montagne e boschi in quota. Dopo aver attraversato un canalone, servendoci delle mani per il terreno impervio sconvolto da una frana, arrivammo così al Passo della Portela (2150 slm), il sole ora riscaldava tanto che quasi scottava e la fatica che stavamo accumulando continuava a scoraggiarci mentre riprendemmo la via. Il percorso per Pizzo Alto non lo dimenticherò mai, e come me ognuno di noi porterà sempre in mente il ricordo di quel tratto esposto che per circa un chilometro costeggia la catena montuosa. In quel momento sembrò che il tempo si fosse fermato e che quel sentiero avrebbe continuato a salire sempre esposto al vento. Camminavamo lenti in gruppi lontani qualche decina di metri lungo un sentiero largo non più di 50 centimetri, chiuso alla nostra destra dagli sfascioni di roccia dolomitica frantumata dal vento e dalle intemperie, e a sinistra dal pendio che scendeva a strapiombo valle.Furono i primi momenti duri che, seguendo la sfida alla salita al Fravort, con tutta la zavorra, misero a dura prova i nervi. In un paio di occasioni ci riuscì di sederci, lasciando i piedi penzoloni. Fu la determinazione a far muovere i nostri passi, spingendoci già oltre i nostri limiti, e portandoci con grinta a Pizzo Alto (2264 metri slm). Ora dovevamo ritrovare la pista per il lago che per una distrazione dovuta alla stanchezza perdemmo nel rimetterci in marcia.

All’incirca verso le 18 il raggi del sole iniziavano a calare e i nostri passi, seppur lentamente, avanzavano ancora, timorosi di non riuscire a trovare il primo rifugio con la luce e andare alla cieca nel bosco. Fu questione di poco quando sbucammo su un crinale e, affacciandoci, riuscimmo a vedere il lago Erdemolo (2006 slm) chiuso nella grande valle un tempo glaciale, ai piedi del monte Cave (2292 slm). La sua caratteristica forma a cuore l’avevamo già bene impressa nella nostra mente più volte, in immagini digitali trovate online. Questa volta però era lì, ai nostri piedi, reale e magnifico come lo avevamo immaginato. Non restava che raggiungerlo, ma ancora una volta avevamo mancato il segnavia del sentiero e ci trovavamo a dover trovare una via per raggiungere il grande rifugio bianco. Così ci dividemmo. Smé, Maria e Sara seguirono un sentiero che proseguiva dal crinale scendendo di quota, mentre io e Michele scegliemmo di tagliare il pendio, affrontandolo di petto fino al lago. Noi rotolammo e le ragazze tardarono a trovare la via, mentre si addentravano nel bosco. Peppe invece, che camminava lontano da noi, era già al rifugio e non appena arrivammo anche noi ci disse che questo era chiuso, eccetto un piccolo capanno alla sua sinistra, con all’interno una vecchia rete metallica di un letto e qualche coperta di lana grezza poggiata un materasso ormai andato. Sistemammo esausti gli zaini a terra e prima di fermarci del tutto consumammo le ultime energie per allestire il nostro campo base. Giacché il capanno non era sufficientemente capiente per tutti, decidemmo di montare le tende vicine e di aprire su queste dei teloni impermeabili utili più per l’umidità che per il rischio di piogge.

In poco fece scuro, ma avevamo già riempito la nostra tanica d’acqua e stesi i sacchi a pelo nelle tende. Non restava ora che concederci una cena calda e meritata, che consumammo avidamente, devastati dalla stanchezza ma con gli animi in estasi per dove ci trovavamo quella notte. Le stelle brillavano e prima di andare a stenderci rimanemmo come sassi, con i nasi all’insù, in silenzio

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