Pioveva. Erano ormai passate diverse ore, ma non accennava a smettere. Il tempo, quella settimana era stato incostante, imprevedibile sia da un punto di vista delle temperature che delle precipitazioni. In poche parole era stata una settimana veramente di merda, ed il pensiero di dover rinunciare ad organizzare una nuova fuga insieme, per quelle montagne, fu ben più pesante di qualsiasi zaino portato sulle spalle per il sentiero più impervio. Non è banale, né esagerato. È altresì il bisogno primario di fuggire verso un mondo incontaminato dalla cattiveria delle città, e dal quell’ alone di ciclica monotonia che la ovatta e tiene lontana dalla pericolosità di un ambiente senza orpelli, essenziale, spoglio.
Questo nostro bisogno di fuga e di essenzialità sembra sfiorare il paradosso, eppure ci crediamo fortemente poiché diventa una scelta di vita. Chi assapora l’avventura non può più farne a meno. Chi sceglie di vivere a contatto con i boschi, su una montagna, o tra le foreste, decide di misurarsi con quelle forze naturali che ti stregano e ti riportano alla memoria gli spiriti di donne e uomini di un passato remoto, abili a plasmare il tempo, e quelle forze, al loro servizio. Oggi invece, per noi che veniamo dalla città, quando siamo immersi in una nuova avventura, ci accorgiamo che la natura è capace di plasmarci, tirando fuori da ognuno il lato più estremo del nostro essere. Il comportamento umano segue il suo istinto, la ragione porta cervello e muscoli e tendini e tessuti a compiere imprese che mai avremmo immaginato d’esser capaci di affrontare. La natura dà coraggio e pretende coraggio. Come in quei giorni di pioggia, quando stavamo appunto per rinunciare, rischiando di perdere una nuova occasione per misurarci con noi stessi.
”Non so ben dire quanto tempo passammo su quella vetta, forse troppo, forse troppo poco, ma sentimmo tutti il bisogno di ricominciare il nostro cammino.
Emanuele RepolaHikers Adventures
Dicevo “stava”, perché il coraggio ebbe la meglio contro quell’angolo remoto della regione condotto dalla prudenza e dal timore. Sabato mattina infatti, nonostante la pioggia, ci mettemmo in auto e raggiungemmo la base del monte Tifata, sul versante Casertano, poco oltre la nota Vaccheria. Al parcheggio trovammo la macchina del primo gruppo che, in attesa del nostro arrivo, aveva saputo approfittare della finestra di bel tempo, per incamminarsi verso il rifugio. Al nostro arrivo invece, aveva già ricominciato a piovere, con la stessa forza della nottata precedente, e fummo così costretti a rimanere in auto una buona mezzora, prima di decidere ugualmente di salire, convinti che peggio di così non avrebbe potuto piovere. L’audacia fu presto premiata, quando imboccando il sentiero, ci accorgemmo che quell’incessante rumore d’acqua che, cadendo, colpisce roccia e foglie, e rami, aveva smesso di picchiettare sulle nostre teste permettendoci così di risalire i rapidi tornanti senza troppi problemi. Ne fummo sollevati.
La legna, che osservavamo avanzando nel bosco, era fradicia come se avesse raccolto l’acqua di intere settimane e questo era un ennesimo pessimo presagio in quanto così conciata era quasi inutilizzabile. Inoltre, arrivati a poche decine di metri dal rifugio, in una valletta che si apre sul versante occidentale, il vento ci colpì al volto con la forza di un pungo ben assestato. Quel vento ci avrebbe accompagnati sino al calare del sole, ma mancavano ancora troppe ore, e la fatica che accumulammo nel preparare la legna per il bivacco fu solo un antipasto di quella che avremmo provato poi la sera, intorno al fuoco. Al rifugio avemmo infatti solo il tempo di cambiare i panni sudati per rimetterci all’opera, ora tutti insieme, con lo scopo di preparare il campo per la serata. Ci fermammo appena per uno spuntino a pranzo e poi di nuovo a lavorare d’ascia e corde, fino a quando, nel tardo pomeriggio non completammo l’opera al punto da ritenerci soddisfatti. Accatastati i ciocchi e preparate le fascine di legna “asciutta” per il fuoco, ci concedemmo un momento di tranquillità con del vino, poi fu solo fuoco, e calore, armonia. Quel fuoco che ci lega e rinsalda i legami, che accompagna le storie di uomini lontani e divinità e spiriti. Il fuoco, alla sera, brucia e consuma i conflitti e crea le basi per una società diversa.
Prima che ce ne accorgemmo fu già notte, e in poco eravamo nei sacchi a pelo, chiusi nel rifugio, riparati dal vento che scagliava forte la grandine che era iniziata a cadere, non prima però d’aver atteso che l’ultimo dei ciocchi si fosse consumato nella brace rovente. Fu una notte serena, che ci ricaricò dalla fatica del giorno precedente e che attraversammo pronti al cammino che ci attendeva al mattino seguente, fuori da quel rifugio.
Fummo finalmente al rifugio, dopo aver completato un anello con attraversamento dei due versanti, in poco meno di quattro ore. Era visibile sul volto di tutti, nonostante la stanchezza, la felicità esplosa appena resici conto della portata dell’”impresa”. E allora furono solo festeggiamenti, con un pranzo da re e con il nettare divino, fino al nuovo calare del sole, quando rimettemmo in spalla gli zaini e salutammo ancora una volta il nostro rifugio.
All’alba eravamo già in piedi. L’aria fredda del mattino si mescolò rapidamente con il calore del sacco a pelo. Così, rapidamente, accendemmo un fuoco con le poche fascine di legna secca che avevamo conservato all’interno del rifugio. In breve, la macchinetta del caffè iniziò a far uscire il suo prodotto che ci risvegliò abilmente. Eravamo già pronti a rimetterci in moto e, non appena ci raggiunsero Peppe, Pietro e Nicole, ci incamminammo rapidi verso il sentiero che ci avrebbe condotto in vetta.
La conformazione rocciosa del Tifata, le sue pendenze, le roccette da saltare e i resti di tempi passati, rendono il trekking per la vetta un vero piacere. Una prima salita rocciosa, una dorsale da attraversare con un panorama da capogiro che spazia dal Vesuvio, al Golfo di Napoli e Sorrento, e poi ancora un affaccio sul litorale Domizio, lontano, sugli Aurunci, le Mainarde, il gruppo del Matese, immensamente innevato, il Maggiore, il Taburno Camposauro, il Partenio, il lungo corso del Volturno, che bagna le piane a valle. Era come ritrovarsi al centro di un mondo elevato, spiritualmente e materialmente, che si elevava al di sopra di un giardino dell’Eden ormai andato e corrotto dall’isterismo.
L’ultima anticima, alla cui sommità restano avvolte dalla vegetazione le pareti di quello che fu l’antico tempio di Giove Tifatino, richiese uno sforzo maggiore rispetto a tutto il percorso sin lì già svolto. Ma avevamo gambe e cuore allenato e l’affrontammo con lo spirito giusto, passo dopo passo, senza lasciarci intimorire né pensare, anche solo minimamente, ad abbandonare la pista per cercare soluzioni più comode. La montagna tira fuori il meglio di sé perché lascia che il nostro istinto naturale abbia la meglio sui timori indotti dalla quotidianità. Risalimmo l’ultimo con lo slancio dato dall’entusiasmo di ritrovarci su una nuova vetta insieme, e una volta lì restammo in silenzio ad osservare tutto quello che gli occhi e la ragione riuscivano ad interpretare, ammirando un paesaggio aperto a 360 gradi su tutto il territorio urbano. Le linee stradali apparivano come lunghe direttrici illuminate dal sole, che si estendevano seguendo assi immaginari e facendosi strada nella fitta maglia residenziale, fatta di palazzoni e casette in cemento che dall’alto sembravano enormi blocchi di costruzioni create con l’unico scopo di deturpare il paesaggio che un tempo fu, facendo spazio, nell’immaginario collettivo, ad un inferno rovente, in cui ci si muove frenetici in un caos perpetuo. Noi no, avevamo dimenticato il tempo che continuava a scorrere, e misuravamo da lì lo spazio con un’ottica diversa, in cui eravamo briciole infinitesimamente più piccole rispetto a chi osserva il mondo dal basso. Questo contribuisce a creare un’identità di sé diversa, in cui ricercare il proprio posto, nel mondo, diventa una sfida nuova e spinge ad esser sempre in movimento.
Non so ben dire quanto tempo passammo su quella vetta, forse troppo, forse troppo poco, ma sentimmo tutti il bisogno di ricominciare il nostro cammino. Fummo così nuovamente sul sentiero, questa volta discendendo il crinale sul versante sud che conduce verso il borgo di Sant’Angelo in Formis. Il percorso, prima reso complesso dalla salita, era ora mutato in un mix di rocce e fango, accumulatosi dalle piogge dei giorni scorsi, e rimasto umido a causa dei pochi raggi di sole capaci di scaldare quella zona coperta ad ovest dai profondi canaloni che discendevano dalla vetta. Attraversammo i resti di una chiesa medievale, della quale è rimasta in piedi, dopo circa mille anni, niente più che una parete malconcia, scendendo infine verso il mausoleo dei garibaldini, poco sopra la Basilica del comune di Sant’Angelo. Scesi, ci prendemmo un momento per osservare quanto avevamo compiuto da una prospettiva diversa. Era incredibile quanto avessimo fatto in appena due ore di cammino, ma non per questo potevamo ora fermarci. Tutt’altro.
I trekking che compiamo sono piccoli tasselli di una impresa più grande che ci troveremo ad affrontare questa estate, dovendo compiere i circa 130 chilometri dell’Alta Via numero 1, sulle Dolomiti, dal Lago di Braies a Belluno. E dunque, in quel momento di riposo, ai piedi del Tifata, sul versante opposto alla nostra salita, iniziammo a ragionare su quale percorso avremmo potuto scegliere per ritornare al rifugio. I profondi canaloni che si seguono sul versante occidentale, non si prestano ad un attraversamento comodo, e così decidemmo di risalire il crinale opposto a quello ridisceso poco prima, incamminandoci su un sentiero fatto di rocce che si scaldavano al sole, come appena il vento diminuiva la sua forza. Ci volle circa un’ora per ritornare alla croce di vetta, ma tenemmo saldi i nervi senza farci prendere dallo sconforto del battito del cuore ormai a mille. Una volta lì in cima era ormai evidente che sarebbe stata plausibile la sola via percorsa all’andata, in quanto avevamo risalito troppo il canalone, perdendo l’attacco con un ipotetico sentiero da prendere a mezza costa.