Plic.. plic.. plic.. Fu quel suono costante e lento di gocce di pioggia residue della nottata precedente a risvegliarmi dal sonno profondo. Il sacco a pelo era caldo e mi avvolgeva come le coperte fanno d’inverno nel letto di casa, eppure eravamo ad agosto, a centinaia di chilometri dalla mia stessa stanza. A questo pensiero seguì calmo il sollevarsi delle palpebre che iniziavano a schiudersi alla luce di quel mattino, la quale filtrava già da qualche ora nella tenda. Iniziai a riattivare i sensi, che alla percezione della luce ne captarono il calore, il quale diede vita ai primi movimenti del corpo impietrito, nei muscoli e in ogni fibra, dallo stress creato il giorno precedente con la marcia che ci condusse proprio in quella tenda, dove io e Smé avevamo dormito, crollando prima ancora di richiudere la cerniera all’ingresso.
Mi rigirai sul fianco cercando intorno a me l’orologio, ancora in un incosciente dormiveglia. Lessi l’orario senza dar troppo conto a quanto ritardo avessimo già accumulato rispetto ai nostri piani e lentamente mi sollevai per uscire dalla tenda dirigendomi inconsciamente alla macchinetta del caffè. L’aria fredda mi riportò in me, e solo allora mi ricordai di aver dormito a due passi da un lago glaciale situato oltre i 2000 metri sul livello del mare. Gli occhi e il cuore si gonfiarono rapidamente d’emozioni, cosi da indurmi a respirare quell’aria a piedi polmoni, che il mio corpo bramava più d’ogni altra cosa.
Caricai con cura la moka e la riposi sul fornello acceso del gas. Il sole doveva ancora superare l’enorme parete di Cima Cave e riscaldarci a dovere, e tutto intorno era ricoperto da un leggero brillare di luci riflesse dalle gocce di brina, sopra gli immensi pratoni intorno al nostro campo base. Feci un sorso d’acqua gelida e già il borbottio del caffè che saliva nella macchinetta mi riportò alla mente i ricordi di casa e delle solite abitudini della mattina. Un profumo invitante andò a prendere per mano il resto della compagnia trascinandola a sé con il suo aroma seducente. Usciti fuori come dopo un bombardamento, intontiti dal freddo e dalla sfacchinata del giorno precedente, ci ritrovammo accovacciati davanti alle braci del focolare acceso per scaldarci durante la nottata, in attesa del caffè che preparai come buona abitudine. Consumammo una abbondante colazione, e in breve ci preparammo a ripartire. Non prima però d’accorgerci di una coppia di escursionisti che si era fermata a osservare il lago glaciale in tutta la sua maestosità del mattino, con i piedi impantanati nella nostra “valle felice” dove avevamo lasciato sotterrati, poco prima, le risultanze dei nostri movimenti intestinali.
Caricammo gli zaini in spalla e ci avviammo lungo il sentiero 324 del SAT, in direzione del Rifugio Sette Selle dove avremmo trovato accoglienza per il pranzo visto l’incombenza di nuvoloni d’acqua previsti dal meteo. Immersi in coltre di nebbia dense e ancora non diradatesi a quell’altezza, superammo il primo tratto in salita aggirando di fatto l’anfiteatro roccioso di Cima Cave che ci aveva ospitato quella notte. Camminando osservammo intorno a noi, in un silenzio surreale, le immense pareti di roccia che si stagliavano immense di fianco a noi, e fu proprio lì che incrociammo, al nostro interrompere della quiete di quel mattino col passo pesante, un gruppo di camosci intento a darsi alla fuga, a poche decine di metri dalle nostre teste. Fu uno di quei momenti che valgono i chilometri fatti, le botte prese, le cadute, ma anche ogni risalita, ogni sforzo, ogni volta in cui si riesce a superare se stessi e i propri limiti, con le vesciche ai piedi. Un momento da ricercare sebbene impossibile da pianificare, che blocca l’uscita delle parole e la formulazione dei pensieri. Seguimmo con lo sguardo tutta la loro elegante corsa da equilibristi, in bilico su rocce instabili e taglienti, finché non li perdemmo nella coltre di nebbia fitta. Quel momento ci diede linfa nuova mentre ad ogni passo tornavamo indietro con i ricordi al giorno precedente e alle difficoltà incontrate e dovute al peso dei pesanti zaini.
Happiness is real
only when shared
Into the wild
Ci rimettemmo in marcia seguendo il nostro percorso che piano piano ci allontanava dal lago di Erdemolo e scendeva verso l’alta Valle del Laner. Quell’altopiano situato oltre i 1700 metri slm, soprastante il borgo di Palù del Fersina, e alimentato dai corsi d’acqua del Prinn e dell’omonimo Laner, si apriva sulla valle lasciando alle sue spalle le prime grandi montagne attraversate sin ora facendoci perdere rapidamente quota. Il sentiero si immergeva nel bosco fitto per poi sbucare al bivio dal quale avremmo dovuto proseguire verso il Sasso Rotto, risalendo così nuovamente il pendio ora roccioso, ora boscoso, sino ad un ponticello in legno dal quale, proseguendo verso destra, andava ad incrociare il sentiero parallelo che partiva proprio da Palù del Fersina. Fu qui che incontrammo numerosi escursionisti diretti al Rifugio Sette Selle, le prime persone dopo aver superato l’ormai lontano monte Fravort. La salita al rifugio fu il banco di prova dei nostri piedi. Non esser stati equipaggiati a dovere è stato pagato anche con qualche ferita aperta e sanguinante, ma soprattutto ha intaccato lo spirito che ci stava guidando in quel momento e che rischiava d’esser esasperato per la necessità di sfilarsi gli scarponi.
Arrivammo al Rifugio con il cielo grigio e con Peppe che vedemmo uscire dall’ingresso con la sua birra gelata tra le mani. La targa parlava chiaro, Rifugio Sette Selle CAI – SAT Sez. di Pergine m. 2014. Eravamo in marcia da non più di 3 chilometri, con un dislivello che ci ha portato prima in quota, poi a valle (m. 1750) e poi di nuovo su al rifugio. Poca roba insomma, eppure non si può nascondere che la fatica ci aveva colpito. Ma se devo dirla tutta, ad oggi, fu altrettanto una sciocchezza in confronto al fascino di quel posto al quale non eravamo abituati se non in poche immagini strappate in rete. Noi gente di mare e di collina. Noi gente del Sud.
Raggiungemmo Peppe al tavolo nel piazzale davanti al Rifugio, che ci spiegò alcune norme di comportamento e gli orari del pranzo che decidemmo di fare lì, dopo averne discusso bevendo una birra tutti insieme. Il problema era se stravolgere o meno i nostri piani che ci vedevano lì soltanto di passaggio, ma con l’incombere della pioggia, la birra a portata di mano e la possibilità di pernottare in quel rifugio per riprender fiato e coraggio, ci lasciammo convincere facilmente dalla comodità e dalla curiosità di vivere una giornata di montagna in uno dei rifugi più belli che avessimo mai visto.
Sapevamo bene che ogni bivio era una scelta, ogni strada presa una lezione ed ogni arrivo una ripartenza, e così ce la giocammo ai dadi, puntando sullo stravolgimento in corso di quei piani tanto studiati e riscritti più volte, che nei mesi precedenti avevamo calcolato al millesimo per riuscire a compiere tutto il giro dei Lagorai nei tempi stabiliti. L’improvvisazione è un rischio che a volte paga più di un progetto sacro, ed in quel caso, in quel giorno, a quella tavola avemmo ragione e lo scoprimmo soltanto alla fine.
Decisi quindi a prendere cena e pernottamento ci consolammo dando fondo a qualche riserva alimentare in più, ben lieti di iniziare a svuotare il peso degli zaini. Preparammo il pranzo di gruppo e ci sedemmo sotto una tettoia a mangiare i nostri liofilizzati e a bere birra insieme. Era proprio tornata la carica dei primi momenti, la fatica era scomparsa come appena fummo consapevoli di poter riposare i piedi, e il pranzo abbondante fece il resto. Ci ritrovammo così, nelle prime ore del pomeriggio, seduti su delle sdraio nel grande pratone antistante il rifugio a lasciare che il sole, riapparso, completasse l’opera di ristoro.
Riposammo giusto un’ora prima di separarci e andare a curiosare nel bosco. Fu una decisione naturale, nata dalle differenti esigenze di ognuno di noi, che contribuivano a renderci, ora, una sola cosa. Peppe prese la sua macchina fotografica e puntò in direzione del sentiero che superava alle spalle il rifugio per spingersi verso La Colombara, Maria e Smé si diressero invece verso il Passo dei Garofani, per poi discendere anche loro verso l’enorme parete della Colombara. Io, Sara e Michele decidemmo invece di provare a salire l’imponente massiccio di rocce sfasciate della Cima Sette Selle. Il percorso che scegliemmo parte alla destra del rifugio e prosegue verso la Colombara compiendo poi un arco verso destra raggiungendo così il grande pendio Nord del Sette Selle, dove immense rocce franate vanno superate individuando i simboli rossi che indicano la via che conduce alla forcella, dalla quale è possibile prendere poi il percorso verso la cresta Nord-Est dalla quale si raggiunge la vetta, avanzando con una facile arrampicata tra le rocce. Qualche tratto sporgente e tanto vento.
Non avevamo considerato nulla. Lunghezza, difficoltà, esposizione. Non seguivamo più nulla se non l’istinto.
E così, usciti dal primo tratto boscoso, continuammo il trekking su quello stesso arco che, passando sotto la Colombara, continuava verso Cima Sette Selle adesso su sentiero meno pratico e reso difficoltoso dalle rocce instabili sotto ai piedi. Quando fummo sotto la Colombara notammo un puntino salire verticale lungo l’enorme parete arrossata dai raggi del sole che la colpivano in pieno, decisi quindi di montare lo zoom lungo sulla mia macchina fotografica e vidi che si trattava proprio di Fabiotto, il ragazzo che lavorava nelle cucine del rifugio e che tra una pausa e l’altra arrampicava in zona su pareti ben attrezzate. Ci fermammo tutti e tre qualche minuto ad osservarlo in progressione, mentre il vento saliva di intensità e i nostri occhi verso di lui; poi riprendemmo il cammino.
Dopo circa un’ora abbondante fummo finalmente alla forcella, dalla quale avremmo dovuto proseguire, non prima però di toccare con mano le trincee di guerra rimaste intatte in quegli avamposti nascosti, dal basso, anche all’occhio più attento. La salita prometteva bene, ed io, Michele e Sara non potevamo fare a meno di rigirarci in continuazione con la vista che si perdeva lontana disegnando paesaggi surreali, quasi lunari, perdendosi ancora lontani verso le cime più alte delle Dolomiti trentine.
Alla forcella Sara si fermò, il vento soffiava raffiche violente e lei preferì rimanere a far da tramite tra i ragazzi a valle e noi in cima. Salivamo veloci e man mano che avanzavamo in progressione, arrampicando le grandi rocce, il vento cresceva e Sara si rimpiccioliva sempre più. Fummo in vetta e davanti ai nostri occhi si potevano contare un’infinità di cime e catene montuose che si prolungavano verso l’Austria da una parte e la Lombardia dall’altra, verso le valli attraversate e su fin alle Pale di San Martino di Castrozza. Era una sensazione alla quale non eravamo preparati, ma che ancora oggi non smettiamo di ricercare.
La discesa al rifugio fu più rapida, recuperammo Sara e tornammo dai ragazzi a raccontarci di questa nuova avventura. Ognuno portava con sé la sua e fu come averle vissute tutte. Intanto fuori il sole andava scomparendo lasciando il posto ad un cielo blu notte pieno di stelle innumerabili. Restammo qualche ora dopo cena a chiacchierare prima di ritornare in branda. Domani saremmo tornati a fare sul serio.