La sveglia suonò presto quella mattina e portava con sé un’aria tipica degli addii. Nessuno ci avrebbe lasciato, bensì saremmo stati noi a dover salutare lo splendido rifugio Sette Selle, che ci aveva accolto come in una famiglia, per tornare ad essere nomadi su quelle splendide montagne. Ovviamente non saremmo mai partiti prima di aver fatto un’abbondante colazione e dopo i saluti di rito con i gestori che, in quell’occasione, si dimostrarono utili guide nell’indicarci il sentiero da prendere quella mattina.
Senza neanche accorgercene avevamo già lasciato il Sette Selle, zaini in spalla, e camminavamo ora risalendo i pendii rapidi che ci avrebbero condotti al Passo dei Garofani (2150 metri slm). La salita fu una delle più dure, con un enorme dispendio di energia, sotto il sole già cocente delle 9 di mattina. Camminavamo lenti e con il respiro pesante, sostando più del dovuto, avendo così maggior difficoltà a ritrovare il ritmo. La sosta prolungata al rifugio ci aveva allentato troppo la tensione muscolare e così impiegammo più del dovuto per arrivare in cima al passo. Quando fummo su però, tutta fatica che avevamo già accumulato sparì nel vento, lasciando spazio alle emozioni esplose, non appena gli occhi e il cuore si posarono su quel panorama, tanto vasto da perdersi.
Finalmente iniziavamo a riconoscere le cime e le dorsali che avremmo dovuto affrontare in quei giorni. Lo spettacolo era paragonabile solo ad immagini strappate su qualche cartolina, eppure ricordo che era come un’opera suonata da un’orchestra con oltre cento strumenti. Leggera come l’aria di quella mattina. Da sinistra verso destra cima Palù, il monte Baitol, il monte Croce con la Busa di Fregasoga, cima Bolenga e cima Fornace.
Iniziammo a discendere il passo per spostarci oltre e osservare cos’altro avesse da offrirci la natura. Quel giorno c’erano molte persone sul sentiero, ed ognuno aveva in volto la meraviglia. C’erano coppie di anziani, comitive di ragazzi, giovani famiglie con i figli piccoli ed un padre con il proprio figlio nello zaino porta enfant. Continuammo il nostro trekking ormai distanti l’uno dall’altro, con il passo che il corpo poteva garantire, affrontando continui saliscendi e tratti esposti al sole cocente. Passarono le ore, e man mano che ci addentravamo nei Lagorai, diminuiva il numero degli escursionisti. Attraversammo prima il Passo Palù, poi, attraversando un sentiero su sassaie franata, il Passo Cagnon di Sopra e giungemmo al passo Cadin ad ora di pranzo. Da lì, la prospettiva ci offriva a vista tutto il percorso fatto dal Passo Cagnon, attraversando il bosco di pini e abeti e gli enormi pratoni in cresta. Un lungo sentiero che sormontava l’alta Valle della Busa Alta. Avevamo bisogno di riposare, poiché eravamo ancora lontani dal Bivacco Mangheneto, ed il sole forte aveva tentato di abbattere il nostro animo. Ma il pranzo a sacco saziò spirito e corpo e ci diede la carica giusta per rimetterci in marcia.
La seconda parte del trekking che ci aspettava, portava dietro di sé un alone di fascino storico e dramma umano, poiché lungo tutto il percorso, fatto per lo più di passaggi su rocce franate e tratti esposti con cavi d’acciaio in supporto, i nostri occhi scorsero i punti di vedette e trincee nascoste dove fu combattuta la Grande Guerra. Un percorso austero, silenzioso e severo, dove nella quiete si avvertiva la netta sensazione di morte che pervase quei luoghi che ne conservano la memoria ancor oggi.
Il sole caldo del pomeriggio ci affaticò molto quando prendemmo quota tra Cima Bolenga (2272 m slm) e Cima Fornace (2225 m slm), rallentando il nostro passo distanziandoci l’uno dall’altro. E quando finalmente aggirammo Cima Fornace, entrando in un tratto all’ombra, il sole iniziò a calare ed un’aria fredda risalì dalla Val Calamento portandosi dietro il suono lontano di motociclette che risalivano verso il Passo Manghen.
All the good things are wild and free
H. D. Thoreau
Aggirammo l’ultimo sperone del Fornace ed ai nostri occhi apparve l’alzabandiera del Bivacco Mangheneto che ci indicò finalmente l’arrivo. Erano le 18, il sole era già sceso dietro il monte Cadino (2112 m slm) e noi avevamo appena messo piede nell’antico bivacco di guerra, conservato come un oggetto di cristallo dal gruppo A.N.A.
Posammo gli zaini sulle panchine in legno all’esterno ed entrammo lenti e stanchi all’interno del Mangheneto dove incontrammo Giuseppe che, giunto prima di noi, ci accolse presentandoci Filippo e introducendoci le regole del bivacco. Fummo ben contenti di aver trovato un nuovo gioiello al punto che Sara non volle andarsene più via. Avevamo ciò che ci occorreva, un camino, una stufa in ghisa da utilizzare come cucina, un bagno malandato, un’enorme tavola in legno con delle panche comode ed un soppalco con circa 15 posti letto. All’esterno invece, oltre ad un’ampia legnaia, c’era un’altra piccola costruzione con ulteriori brande per dormire. Tutt’intorno a noi, invece, le cime della Catena dei Lagorai ed il monte Ziolera che, con i suoi 2478 metri sul livello mare dominava la piccola vallata dove avremmo passato la notte.
Dopo aver preso confidenza e possesso del bivacco, preparammo un thè caldo ed un caffè che condividemmo con Filippo, in modo da presentarci e raccontare le nostre storie di nomadi per caso lungo le dolomiti Trentine. Solo in futuro capimmo l’importanza e l’impatto che quell’incontro aveva avuto nelle nostre vite. Rimanemmo affascinati nello scoprire quanti viaggi avesse da raccontarci e quanto entusiasmo aveva negli occhi mentre ne parlava. Era un vero uomo delle montagne, un amante dell’esplorazione e delle immagini che la natura sa porci. Conosceva ogni cima che si perdeva dinanzi a noi, e forse bastò questo a spingerci oggi a continuare insieme a vivere di avventure. Ci raccontò dei suoi anni in giro per il mondo e noi non avevamo nulla di meglio da offrire che la nostra attenzione.
Passò un’ora all’incirca, e dal passo Manghen, giù a valle, arrivarono alcune comitive di ragazzi con i quali avremmo condiviso il Mangheneto. Ci sentivamo come una sola cosa, e così finimmo con l’organizzare tutti insieme una cena, coniugando le migliori tradizioni da campo di Nord e Sud. Era inoltre l’ultima sera con noi di Michele che l’indomani sarebbe tornato giù a Padova proprio con Filippo. C’era da festeggiare e dunque preparammo peperoni fritti e una ciambotta di pane fagioli, una zuppa di legumi ed una di verdure; a questo si aggiunsero le luganighe con la polenta e una serie di boccioni di vino rosso portati su proprio dai ragazzi. Fu una festa, per il palato e per l’animo, che proseguì fino a tarda notte, dopo aver bevuto il miglior vin cotto mai assaggiato ed un cocente parapampoli.
Lentamente, ognuno andò a sistemarsi in branda, finchè non rimanemmo in attesa della scomparsa della luna io, Giuseppe e Filippo, nella speranza che il buio della notte sopra i duemila potesse offrirci cieli stellati da immortalare con le nostre macchine fotografiche. Un’attesa lunga e poco fruttuosa poichè le luci lontane della Valle di Fiemme e di San Martino di Castrozza illuminavano sino a noi, e fu così che, dopo averne contate più di centinaia di migliaia, tra cadenti e scintillanti, ci lasciammo dominare dal sonno in una notte buia tappezzata di stelle.