È proprio vero che il fuoco scalda tre volte, quando si raccoglie la legna, quando lo si accende, e quando ci si siede accanto, ma quella sera ci scaldò ben oltre le aspettative.
Le imprese, le avventure, nascono sempre così, sospinte dall’ispirazione del momento. Quell’ispirazione mista a follia e voglia di misurarsi con se stessi. Quell’ispirazione, sorretta dalla consapevolezza di non esser soli, ma di avere anzi al proprio fianco i compagni di strada che abbiamo scelto.
È questa la serie di pensieri che hanno attraversato la nostra mente, nel tempo di un lampo, prima di decidere di anticipare i tempi di marcia, ed incamminarci nei boschi dei Trebulani, ben oltre la mezzanotte. Un raid notturno fatto come si deve, con carichi leggeri, con l’occorrente per accendere un fuoco, cucinare e dormire in bivacco.
Una volta nel bosco, illuminato solo dalle frontali, la risalita al rifugio dove avremo dovuto passare la notte, ha assunto forme nuove e differenti per ognuno. La suggestione, la curiostià e la sfida con le difficoltà di un terreno irregolare, che mai ha permesso di mantenere un ritmo di salita costante, con il fiato corto punzecchiato dall’aria gelida di quella notte, hanno prevalso rispetto ai pensieri che può formulare il cervello in quel momento. Quando nervi, muscoli e ossa tendono nella direzione opposta, è solo il fascino della libertà di quei luoghi che spinge le gambe e ci porta oltre. Raggiunto il rifugio, la prima cosa da fare è stato preparare un fuoco che potesse scaldarci e permetterci di mangiare per riprendere le forze, ma il meteo dei giorni scorsi non ci lasciò che un mucchio di legna bagnata, sparsa lungo i valloni che costeggiano il sentiero di risalita. È proprio vero che il fuoco scalda tre volte, quando si raccoglie la legna, quando lo si accende, e quando ci si siede accanto, ma quella sera ci scaldò ben oltre le aspettative.
Raccolta la legna che ci sarebbe servita per passare qualche ora prima dell’alba, e dopo aver lottato per scaldarla a dovere, prima di ravvivare per bene le fiamme intorno ai ciocchi, eravamo diventati già parte della natura delle cose in cui eravamo. Non si tratta di starsene seduti intorno ad un falò, ma di una predisposizione mentale che ci porta a concepire quel momento come un’avventura da giocare fino alla fine. Per quegli attimi svaniscono le logiche quotidiane e conta solo l’essenzialità di un fuoco, di un pezzo di pane, di un tetto sulla testa. È questa condizione primitiva che ci interconnette con l’ambiente che viviamo, mentre rispettiamo le sue regole.
Preparata la brace e scaldato un po’ di pane con la cena (delle 2 del mattino), abbiamo accompagnato la notte fino alla fine della sua corsa, riuscendo a riposare solo con l’arrivo lontano delle prime luci dell’alba. Al mattino seguente, dopo aver ravvivato quel che rimaneva del fuoco notturno, poiché era necessario che il calore asciugasse l’umidità dalle nostre ossa, abbiamo richiuso gli zaini e preso la giusta dose di caffè, cotto sui carboni accesi, prima di incamminarci nuovamente nel bosco.
Da qui in poi il sentiero svanisce, e quella che si segue è una traccia che si arrampica tra rocce e rovi, dalla quale si attraversano le dure risalite verso le anticime, scavallando ora a destra, ora a sinistra, le creste irregolari ed esposte. Questo bosco e queste montagne hanno un fascino incredibile. Ben lontane da ciò che uno possa aspettarsi, parlando di cime, vette e quote, i Monti Trebulani nascondono scenari stupefacenti grazie alla loro esposizione. Da preappennini, vivono isolati dalle grandi catene montuose e sormontano i borghi a valle stagliandosi sopra di essi, ed è proprio grazie a questo isolamento, che i Trebulani nascondono al loro interno l’animo selvaggio tipico delle foreste remote.
Lì in cima, dopo aver attraversato creste e due anticime, finalmente ci ritrovammo sul Pizzo San Salvatore. Un luogo oggi decadente, e che un tempo era sede di appoggio della Forestale, ma della quale non restano che un paio di baracche in lamiera, fetide e fatiscenti, che ricordano due grossi squarci fatti su una tela tipici degli ultimi trentanni di questa terra, in cui l’uomo ha plasmato il territorio senza mai imparare a farne parte.